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Il dolore dell’intelligenza – William J. Sidis

Qual è il confine fra il genio e la follia, tra il talento e la maledizione, tra l’ambizione e l’ossessione? Che diritto ha un genitore di imporre una vita a suo figlio?

Queste domande hanno continuato a risuonarmi nella mente mentre ricercavo notizie sulla vita di William James Sidis per questo articolo.

Provare ad entrare nella mente di quello che, da molti, viene ancora considerato l’uomo più intelligente della storia, cercare di capire quello che ha passato, il rapporto con la sua famiglia, il suo lavoro, non è stata un’esperienza semplice e dietro ad ogni piccolo aneddoto, dietro ad ogni citazione si scopre qualcosa di oscuro, pesante, doloroso.

È una storia, questa, che vale la pena raccontare, anche solo per rendere giustizia a una mente straordinaria che ha pagato un prezzo troppo alto per le sue capacità. Ha cercato, o forse gli è stata imposta, una perfezione che nessuno poteva davvero raggiungere.

Oggi vi racconto di William James Sidis e della sua vita perfetta.

L’INFANZIA

William nasce il primo di aprile del 1898 a New York City, da una famiglia di migranti dall’Ucraina.

Suo padre, Boris Sidis, era scappato dal suo paese, dall’impero Russo, dopo aver passato due anni in galera. Era stato imprigionato, sotto le leggi di Maggio dello Zar Alessandro III, perché era ebreo. Anche la madre di William, Sarah, era ebrea, ma era riuscita a sfuggire ai Pogrom alla fine degli anni ’80 con la sua famiglia.

Su Boris, Sarah, e il resto della famiglia del piccolo William, torneremo fra poco.

Fin da piccolissimo, risulta chiaro che William non è un bambino qualunque e la sua crescita intellettuale sembra inarrestabile: a 18 mesi è in grado di leggere il New York Times. A due anni scrive su una macchina da scrivere.

A 5 ha già scritto un trattato di anatomia e scoperto una formula per calcolare all’istante il giorno della settimana in cui è avvenuto un qualsiasi evento storico.  A sei anni ha raggiunto e superato il programma scolastico di ragazzi di 13 anni.

A 8 anni ha scritto 4 libri, parla otto lingue oltre all’inglese (il latino, il greco, il francese, il russo, il tedesco, l’ebraico, il turco e l’armeno) e ne ha inventata una sua, il Vendergood. Ha sviluppato anche una sua tavola logaritmica.

A nove anni i suoi genitori cercano di farlo entrare all’università di Harvard, ma viene rifiutato perché troppo giovane ed emotivamente immaturo.

Ci entra nel 1909, a 11 anni.

Ma qui ci dobbiamo fermare.

Perché è proprio qui, di fronte a questi risultati impensabili per un bambino di pochi anni di vita, che affondano le radici di quella che sarà la sofferenza di William.

Perché sì, certo, quel ragazzino un po’ introverso era certamente un prodigio, ma quello che ha fatto, il livello che ha raggiunto, non sono solo il risultato della sua mente vivace e talentuosa, sono frutto di qualcosa di più sinistro.

Di un progetto, di un calcolo. Di un esperimento.

L’ESPERIMENTO 

Dobbiamo tornare indietro a suo padre Boris, ebreo, scappato dalla prigione, arrivato in America per cercare una nuova patria e fuggire da chi la gente come lui la uccideva senza alcuna ragione.

Boris non era un uomo qualunque: i lunghi periodi di isolamento in prigione, come raccontava, lo avevano addestrato a pensare.

Arrivato nella terra delle libertà, Boris aveva collezionato tutti i titoli possibili dell’università di Harvard: un dottorato, un master, un dottorato medico… William James, il filosofo e psicologo, lo aveva preso sotto la sua ala… William James, lo stesso nome che Boris ha poi dato a suo figlio.

Boris era uno psicologo, un medico generico, uno psichiatra, un filosofo, un attivista politico, un poliglotta.

Il suo lavoro fu pionieristico nel campo della psicopatologia e della psicologia di gruppo e fu un feroce oppositore delle teorie Freudiane.

Ma Boris, per quello che ci interessa nella nostra storia, fu soprattutto un estremista del concetto di educazione.

Era ossessionato dal fatto che il cervello esprimesse il massimo del suo potenziale nei primissimi anni di vita e si era convinto che il gioco, l’affetto, le normali attenzioni e premure che si rivolgevano ai bambini di quell’età fossero un grave errore, uno spreco. Non solo, ma era anche affascinato dalle suggestioni ipnotiche e dal loro potere sulle menti dei giovanissimi.

Scrive Boris Sidis: 

“Rimandare è un errore, è un torto verso il bambino. A quell’età possiamo risvegliare una passione per la conoscenza che rimarrà per tutta la vita”.

Boris aveva le sue idee, aveva le sue convinzioni e aveva i mezzi per sperimentarle. Gli mancava solo qualcuno su cui metterle alla prova, una cavia.

William.

Ve lo ricordate? William sapeva leggere a soli 18 mesi. Ma suo padre aveva iniziato ad addestrarlo con i cubi dell’alfabeto nella sua culla poco dopo la sua nascita.

La mamma di William, Sarah, era d’accordo col marito. Anche lei era un medico. Lasciò il lavoro per dedicarsi a tempo pieno a forgiare l’intelletto di suo figlio William.

Non c’è riposo, non c’è divertimento, non c’è spensieratezza, per William. C’è solo il prossimo libro da studiare, il prossimo compito da svolgere.

Come scrive John Lienhard in un articolo che vi lascio qui, “il genio di William James Sidis è stato il prodotto dell’ambizione dei suoi genitori di creare un gigante intellettuale”

E la parola che io non riesco a togliermi dalla mente è “prodotto”.

GIOVINEZZA

E ora possiamo proseguire con la storia di William e capire a fondo ciò che gli è successo. Eravamo rimasti al 1909, William ha 11 anni e i suoi genitori riescono finalmente a farlo entrare ad Harvard, infrangendo il record precedente per il più giovane iscritto alla prestigiosa università.

Nei primi mesi del 1910 la padronanza della matematica di Williams è quasi incomprensibile. Tiene una lezione al club matematico di Harvard sui corpi di 4 dimensioni e quasi nessuno dei presenti riesce a seguirlo, alcuni bollano i suoi ragionamenti come troppo astrusi.

Il professor Daniel Comstock, del MIT, è presente ed esce sconvolto da quell’aula. Racconta cosa ha visto a dei giornalisti, assicurando loro che quel bambino è destinato a diventare uno dei più grandi matematici della sua epoca.

Una storia perfetta per i giornali. E così, William diventa il bambino più famoso negli Stati Uniti d’America.

Un anno più tardi, crolla. Esaurimento nervoso completo, William sembra incapace anche solo di prendere in mano un libro.

Suo padre Boris lo porta a Portsmouth, nel New Hampshire, dove ha fondato una clinica, l’istituto di psicoterapia Sidis.

Non è chiaro che cosa accadde lì dentro. William torna ad Harvard dopo alcuni mesi.

La vita all’università è dura, William è isolato, additato dai suoi compagni come un fenomeno da baraccone, un disagiato.

I suoi genitori lo costringono a vestirsi ancora come un bambino anche quando ormai è un adolescente, con i calzoncini corti, la giacchetta da college e degli scarponcini.

William si laurea in matematica a 16 anni, con lode. Nel giorno della sua laurea i giornalisti lo cercano, vogliono darlo in pasto alla macchina della cronaca e William pronuncia queste parole:

“Io voglio vivere la vita perfetta e l’unico modo per vivere la vita perfetta è vivere in reclusione”.

Provate per un secondo a immaginare un sedicenne pronunciare queste parole. L’ombra dei suoi genitori si allunga dietro ad ogni lettera.

William dichiara di aver deciso di rinunciare alla possibilità di sposarsi e fa incidere una medaglia che gli ricordi quella decisione assoluta. Dichiara inoltre di non avere tempo per la musica, l’arte o qualsiasi altra cosa che fosse al di fuori della sua mente.

Dopo un brutto episodio in cui un gruppo di studenti di Harvard lo avevano minacciato fisicamente, William si trasferisce a Houston, in Texas. I suoi genitori gli hanno trovato un lavoro come insegnante di matematica a quella che oggi è la Rice University.

Il risultato è disastroso: gli studenti di William sono più grandi di lui e lo ridicolizzano, lo umiliano.

IL CROLLO


Dopo 8 mesi alla Rice, William non ne può più, è schiacciato da una pressione che sembra essere ogni giorno più forte. La pressione dei suoi genitori, la pressione dei suoi insegnanti, la pressione dei suoi alunni, la pressione dei media, la pressione di una vita che non ha voluto, non ha cercato, in cui è stato inserito contro la sua volontà.

Lascia il lavoro e lascia la matematica, quantomeno in senso strettamente accademico: nel 1916 si iscrive alla facoltà di legge ad Harvard, ma molla anche quella, tre anni più tardi, a un anno dalla laurea.

William è un ragazzo a pezzi, senza pace e trova rifugio nell’attivismo politico. Conosce Martha Foley, scrittrice e attivista a sua volta, l’unica donna per la quale abbia mai dimostrato interesse, l’unica persona per cui William sembra provare amore. Non dimenticherà mai Martha, per tutta la sua vita.

William J. Sidis

Poco dopo aver lasciato l’università porta il suo pacifismo e idealismo all’estremo, partecipa a una protesta socialista a Boston che diventa violenta, viene arrestato e condannato a 18 mesi di prigione. Il suo arresto finisce su tutti i giornali.

Sidis, durante il processo, si dichiara socialista, obiettore di coscienza, pacifista e sfida la corte dicendo di non credere in un dio come il grande boss dei cristiani.

Suo padre riesce a tenerlo fuori dalla galera e lo trasferisce ancora una volta nel suo centro di psicoterapia. Lo rinchiude lì per un anno con l’obiettivo di “riformare” il suo pensiero.
Ancora una volta, non sappiamo quali pratiche psicologiche i suoi genitori abbiano usato su di lui. Si sa però che Boris e Sarah lo minacciarono di trasferirlo in un manicomio se non avesse collaborato con la loro “terapia”.

LE FUGHE

Nel 1921 William riesce finalmente a liberarsi dalla morsa dei suoi genitori. È determinato a “smantellare coscientemente”, per usare le parole di Richard Snow, quel meraviglioso e doloroso meccanismo intellettuale che la natura e suo padre gli hanno imposto.

William vuole annientare la sua figura pubblica e spegnere la sua mente. Taglia ogni rapporto con i genitori, con i gruppi di attivismo politico, con il mondo accademico.

Sparisce.

Un giornalista lo scopre nel 1924, 3 anni più tardi: è a New York, lavora in un ufficio per 23 dollari alla settimana. William gli dice che l’unica cosa che vuole è tornare ad essere anonimo, avere abbastanza soldi da sopravvivere e un lavoro che non gli chieda niente. Vuole essere lasciato in pace. Sparisce di nuovo.

Ma nell’oscurità della sua privacy, la mente di William non può rimanere ferma. Scrive di antropologia, filologia, storia dei nativi americani, politica sociale, cosmologia.

Passa tutto il suo tempo libero, quando non scrive o lavora, a collezionare biglietti colorati dei tram, per cui ha una passione smodata. Lo fanno contento, come il bambino che non ha mai potuto essere. Ne aveva più di 1600 e guardarli, così diceva, gli dava un piacere immenso.

Pubblica anche un libro di 300 pagine sotto pseudonimo sulla sua collezione, pieno di dettagli astrusi, curiosità sulle linee del tram, battute puerili. 

Si trova lavoro come contabile e, per un po’, resta tranquillo.

Ma la sua intelligenza, che è la sua maledizione, non ha ancora finito di tormentarlo. Un giorno al lavoro qualcuno gli mostra una serie di tabelle pensate per risolvere dei problemi statistici. William le studia un po’ e se ne viene fuori con un metodo molto più semplice per risolvere tutte le difficoltà. Un metodo che nessun esperto era riuscito a trovare.

E da quel momento tutti al lavoro sanno chi è veramente. William è in trappola, di nuovo.

Nel 1937 dichiara a un giornalista che lo ha seguito e trovato: 

“La sola vista di una formula matematica mi provoca dolore fisico. Tutto quello che voglio fare è usare una calcolatrice, fare il contabile, ma non mi lasciano mai in pace.”

Il reporter, un infame, gli ricorda quello che aveva detto quel professore, Comstock, tanti anni prima, dopo la sua lezione ad Harvard, quando aveva predetto che sarebbe diventato uno dei matematici più influenti del mondo.

William gli risponde 

“è strano in effetti ma sa, io sono nato il primo d’aprile, il giorno del pesce d’aprile”.

Quando esce sul giornale, umiliante, pieno di dettagli sulla sua vita solitaria e povera, William denuncia il giornale per invasione della privacy. Nel suo piccolo appartamentino scrive una dichiarazione triste e patetica che suona come un grido disperato d’aiuto.

William giura a tutti di non essere più un genio, di aver dimenticato ogni cosa della matematica, di essere diventato un uomo qualunque, e di essere pronto a fare dei test d’intelligenza per dimostrarlo.

Non gli crede nessuno.

William trascorre gli ultimi anni passando da un lavoro all’altro. Continua a collezionare i suoi biglietti colorati del tram.

Si dice che William James Sidis avesse un quoziente intellettivo tra i 250 e i 300 punti, il più alto mai registrato, che in età adulta parlasse oltre 40 lingue, che comprendesse la matematica come nessun altro al mondo, che avesse intuizioni sul funzionamento del cosmo che lo portavano avanti di decadi rispetto agli studiosi della sua epoca, ma non è chiaro dove finisca la realtà e dove inizino le storie e le esagerazioni messe in giro dalla sua famiglia e dai giornalisti.

Una cosa è chiarissima però: William, tutto questo, non lo aveva chiesto.

Nel 1944, a 46 anni, dal nulla un’emorragia cerebrale spegne la sua mente per sempre. La sua “vita perfetta” si ferma qui.

Al momento della sua morte portava con sé la foto di Martha Foley, quella ragazza che era riuscito a guardare davvero, quando era ancora un ragazzino. Quella ragazza per cui aveva provato amore davvero, anche se stava fuori dalla sua testa, fuori dal programma, fuori dall’esperimento.

Lei si era sposata con qualcun altro, tanti anni prima.

Ma questo, a William, non importava.

Alessandro de Concini
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